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 Vox Antiqua n. 7 - Indice 

Editoriale
Giovanni Conti

 

L’interpretazione del Canto gregoriano tardivo alla luce della Semiologia
Juan Carlos Asensio Palacios

Persistenza e innovazione nei libri corali di Santa Maria degli Angioli di Lugano
Alessandro De Lillo

Organo e Canto gregoriano nell’Ottocento: esplorazioni tra Francia e Inghilterra
Guido Milanese

 

Il Canto gregoriano con i giovani cantori.
Riflessioni per una possibile simbiosi di purezza espressiva

Franco Radicchia

 

Notitiæ

 Editoriale 

La Semiologia gregoriana è una via irrinunciabile nello studio del Canto Gregoriano. Vogliamo credere che ciò sia una certezza per tutti coloro che, in modi diversi, si approcciano o approfondiscono la conoscenza della monodia sacra occidentale. Il che non significa vedere nei ‘semiologi’ coloro che in maniera fondamentalista non sono aperti ad altre posizioni attraverso le quali maturare un percorso di comprensione sempre più attento. Che alla Semiologia di Eugène Cardine, affinata da Luigi Agustoni, si debba guardare con scientifica reverenzialità è ormai un dato inconfutabile e questo nuovo numero di Vox Antiqua vuole unirsi al coro di ricercatori e interpreti consci da tempo di quanto esposto in apertura di queste righe.
Lo fa fermando l’attenzione su due aspetti importanti, il primo dei quali è l’iniziazione al mondo gregoriano dei pueri cantores, realtà cui da anni si dedica con risultati importanti Franco Radicchia. È lui, nel suo articolo, a dirci come il trasmettere ai giovani cantori i principi dell’insegnamento cardiniano, rappresenti il primo passo verso la comprensione del linguaggio gregoriano in quanto mezzo per scoprire il significato simbolico dei neumi, per poi interpretare la sintesi che ne rappresentano. In altre parole, nell’esperienza con i pueri è necessario pensare innanzitutto alla simbiosi testo-melodia, concentrando l’attenzione su uno spazio di ricerca in cui la Parola trovi la sua giusta e naturale collocazione attraverso l’appropriata declamazione e la giusta dizione – stabilendo così un rapporto con una realtà fonetica – e soddisfi una elementare esigenza di ritmo sillabico. È questa la consapevolezza che emerge dalla pluriennale esperienza sul campo di Franco Radicchia, convinto pure della capacità dei bambini di calarsi con naturalezza nell’arte declamatoria oltre che, in relazione ai testi sacri del repertorio gregoriano, in possesso di quella purezza interiore che spesso si proietta nella vocalità. Il bambino e l’adolescente riescono a far risuonare la loro ‘valigia vuota’ o semivuota di esperienze, proiettando nelle risonanze generatrici di suono, la brillantezza dello spirito fresco e genuino che meglio si presta ad amplificare il rapporto testo-musica e che è l’essenza del Canto Gregoriano.

Sempre ponendo la Semiologia come punto di riferimento, il noto gregorianista spagnolo Juan Carlos Asensio Palacios ci onora di una sua profonda e convincente riflessione metodologica, che offre risposte a una serie di quesiti che nascono – o dovrebbero nascere – in animo all’interprete confrontato non con materiale neumatico, ma con importanti manoscritti tardomedievali, se non addirittura libri a stampa del Rinascimento. Il primo quesito chiama in causa la natura del cosiddetto Canto gregoriano tardivo, chiedendosi che cosa sia in realtà. Seguono necessariamente altre domande: Quali criteri si applicano per classificare un canto alla “età d’oro” o al contrario, tardivo se non addirittura “decadente”? Parliamo di Canto gregoriano tardivo perché composto “a imitazione di quello autentico” o si tratta di Canto gregoriano “autentico” notato con criteri notazionali “tardivi”? Non sono interrogativi di poco conto e chi, tra la cerchia degli studiosi, ha l’intelligenza di non guardare quasi con insofferenza a questi materiali musicali, sa di cosa stiamo parlando.
Asensio ci illustra con la sua caratteristica limpidezza quanto l’insegnamento di Cardine, ma ancora prima quello di Mocquereau, abbia chiarito come risieda nello studio dei manoscritti l’incontro con la base dei criteri di restaurazione del Canto gregoriano. Certo è che, solamente attraverso una esaustiva conoscenza della notazione musicale è possibile accedere ad una “interpretazione autentica”. Di qui l’importanza della Semiologia, insieme ad altre discipline. Senza dubbio uno dei compiti dello studio delle notazioni fu quello di presentare in maniera sistematica un abbondante, e interessante, affiancamento dei segni che arricchiscono in maniera considerevole la “povertà” dell’uniforme notazione quadrata, che costituisce un’importante semplificazione dei segni fino a quel momento utilizzati dalle notazioni neumatiche totalmente “in campo aperto”.
Era quello un momento in cui i neumi “puri” subivano già segnali di decadenza e soltanto alcune scuole conservavano determinati dettagli che rivelavano gli splendori del passato. Sarà presto la notazione quadrata a scrivere l’intero corpus monodico nel periodo che va dal XIII al XV secolo, momento in cui si eclisserà definitivamente ciò che rimaneva di alcune scuole di notazione. Non è un caso quindi se Juan Carlos Asensio Palacios ha sviluppato la sua analisi prendendo come punto di partenza un autorevolissimo codice spagnolo, il cosidetto Codex Calixtinus, e in particolare all’esemplare detto “el Jacobus”, conservato nell’Archivo della Cattedrale di San Giacomo di Compostela: l’unico di tutte le copie esistenti che contiene la musica propria per le celebrazioni del santo patrono di Spagna.

Rimanendo nell’ambito della notazione quadrata, Vox Antiqua ospita un lavoro di analisi sui libri corali attualmente alla Biblioteca cantonale di Lugano, provenienti dalla Chiesa del convento luganese di Santa Maria degli Angioli e firmato da Alessadro De Lillo. Il suo lavoro consente di arrivare a conferme del quadro storico delineato dalla storiografia recente, relativamente ai fenomeni di persistenza o di innovazione nel repertorio e riguardo al grado di incidenza delle versioni proposte dall’Editio Medicea; i primi interessanti spunti di riflessione confermano il notevole grado di autonomia dell’ambiente francescano rispetto alle spinte normative e alla volontà di centralizzazione insita nelle attività di revisione del repertorio patrocinate da Gregorio XIII a partire dal 1577. Se nelle intenzioni dei promotori l’Editio Medicea avrebbe dovuto avere lo scopo di emendare le versioni melodiche dai “barbarismi” e dalle obscuritates che, ai loro occhi, affliggevano il repertorio del Canto gregoriano (ma che in realtà costituivano la testimonianza storica del perpetuarsi di una plurisecolare tradizione), il quadro normativo che ne scaturì non ebbe mai il ruolo di monopolio, spesso aprioristicamente supposto dalla storiografia e tutt’al più tali fenomeni di stabilizzazione riguardarono il filone melodico “istituzionale”. De Lillo individua tre percorsi indipendenti: quello ufficiale, che sostenuto da imprimatur e approvazioni di Roma puntava all’istituzionalizzazione di una “verità storica”, ricostruita a tavolino da illustri musicisti sulla base dell’estetica corrente; quello della produzione di libri liturgici a stampa, in contesti più o meno periferici e infine quello della produzione interna agli ordini religiosi. De Lillo si concentra su quest’ultimo settore, soffermandosi sul piano musicale e su quello più strettamente tecnico-notazionale, fornendoci alcuni esempi tratti dal repertorio del proprio della Messa e dal Kyriale e isolando alcune linee-guida di supporto per i futuri approfondimenti su questi importanti testimoni di area lombardo-ticinese.

Una perla nei contenuti di questo numero è certamente l’articolo firmato da Guido Milanese che, soffermandosi sul rapporto tra Organo e Canto Gregoriano riscontrabile tra Francia e Inghilterra nel XIX secolo, sostiene con chiarezza che l’immagine storica corrente di un Canto Gregoriano, nato monodico e successivamente ‘sviluppato’ come canto polifonico, è certamente da rivedere. Milanese si rifà alle fonti romane che già dal VII secolo mostrano chiaramente come il canto fosse eseguito, oltre che dalla voce principale, anche da voci di ‘controcanto’, che dovevano probabilmente realizzare una nota bassa modalmente sensibile (una sorta di ison bizantino) e note, per noi non ricostruibili se non idealmente, di amplificazione della linea melodica. Secondo Milanese – ma non solo secondo lui – occorrerebbe ripensare radicalmente la convenzionale periodizzazione della Storia della musica, confortati dal fatto che i trattati di polifonia dei secoli IX-X non rappresentano il cosiddetto «inizio della polifonia», ma la codificazione scritta di prassi esecutive esistenti da tempo. Prassi di ‘amplificazione’ che durano per secoli, anche quando accanto al Gregoriano è ormai stabile la composizione polifonica scritta del tutto indipendentemente da un legame obbligatorio con le melodie tradizionali. Dai manuali francesi dell’Ottocento, Milanese ricava l’impressione di un continuo passaggio dall’esecuzione a una voce ad esecuzione a più voci, con una elasticità esecutiva abbastanza sorprendente per le categorie di oggi.

Ancora una volta il quadro delle proposte di Vox Antiqua è sfaccettato per andare incontro alle diverse possibilità di lettura e di approccio a queste tematiche. Ci premeva ribadire il ruolo della Semiologia cardiniana e il nostro è solo un contributo affinché il sentiero tracciato dal maestro si trasformi nel tempo nell’ampia strada da tutti percorsa.
Buona lettura!

Giovanni Conti
direttore di Vox Antiqua

 

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